Il bulletto del paesino
Mi sono reso conto che non ho mai raccontato a nessuno degli episodi di bullismo di cui sono stato vittima da bambino / preadolescente. E credo che sia importante, invece, parlarne. Non aspettarti, però, una storia particolarmente dolorosa. Ovviamente all’epoca di questi fatti nemmeno esisteva il concetto di bullo se non come sinonimo di ragazzaccio, sulle note di “Grease” e sull’erronea traduzione di “Bulli e Pupe”. Era un termine piuttosto edulcorato e superficiale, non considerava la portata del disagio che poteva causare, o forse era più visto come un fenomeno naturale di iniziazione e allenamento per le ingiustizie che il mondo ti teneva in serbo per l’età adulta. Non che fosse meno odioso, o generasse meno lacrime, o che la paura di incrociare il bullo non ti paralizzasse o non ti inducesse a cambiare le abitudini.
Certamente i fenomeni di bullismo sono antichi come il mondo, l’inclinazione a ribadire la propria forza se confrontata con la debolezza di chi aveva l’indole di non reagire alle prepotenze credo sia un fenomeno molto umano. Non cerco di giustificare il fenomeno, prendo solo atto della sua concretezza, e del fatto che, di coloro che si prodighino a prendere le difese dei bullizzati, ce ne sono sempre troppi pochi. Una distribuzione tutt’altro che simmetrica. Ma come ho già avuto modo di spiegare, non sono un sociologo né un antropologo.
Riesco forse a individuare un paio di momenti in cui sono stato vittima di bullismo (nonnismo escluso, dunque).
Il primo è stato piuttosto “leggero” o forse, più che leggero, direi “distribuito” nel tempo, il che mi ha dato modo di abituarmi al “crescendo” degli episodi. Io sono entrato a scuola in seconda elementare a 6 anni, e i miei compagni di classe erano tutti più grandi di me. Differenze piuttosto sensibili a quell’età. Mi hanno sempre in qualche modo “ricordato” che io ero più piccolo. Escluso, messo da parte, ignorato, canzonato. Da quasi tutti in classe, tranne pochissimi che non hanno mai apertamente preso le mie difese.
Venivo scelto per ultimo a calcio (anche perché non l’ho mai amato e non ero affatto bravo), e per similitudine ingiustificata anche ad altri giochi. Mi davano del viziato, del “figlio di papà” perché avevo fatto la primina con un insegnante privato, perché avevo un computer quando nessuno nella provincia aretina sapeva neppure cosa fosse, mi davano dello sfigato.
Questa storia è andata avanti grossomodo fino alla seconda media, quando il mio “dislocamento” è divenuto paragonabile a quello dei più “grossi”, quando hanno scoperto che a pallamano ed altri sport ero decisamente più abile, e quando sono riuscito a confrontarmi e a dire “no” a quelli davvero spaventosi, quelli che sembravano grandi, coi i baffetti evanescenti (che non erano in classe mia fortunatamente). Sembrava che la lingua che conoscevano fosse solo quella della dimensione. Solo se eri alto come loro allora facevano funzionare la bocca per formulare qualche parola sconnessa, altrimenti ti passavano sopra come un rullo compressore.
Ma quella era forse solo logica primitiva di gente con poco cervello.
Come mi sentivo? Male. Ero spesso a lamentarmi con i miei, che però minimizzavano. Mi dicevano “e tu rispondi così” proponendo espressioni che oggi direi “mi cringiavano”. Non volevo dover rispondere. Volevo essere bocciato per rientrare nell’ordine naturale delle cose. Il che non avvenne. A volte, di rado, piangevo in camera mia, senza farmi vedere. E facevo buon viso a cattivo gioco. Ripeto: nulla di paragonabile a certe storie che guadagnano la ribalta delle cronache. Ma faceva male. Cosa mi ha lasciato, in cambio? Introversione. Che non è un male, ma forse da piccolo ero più esuberante ed estroverso. L’abitudine ad essere messo in ombra o a tacere… ho scoperto che non mi dispiaceva.
Quello che mi fece soffrire di più, però, era un ragazzo molto più grande. Avevo da poco riconquistato la mia “trasparente normalità”, e questo tizio voleva riportarmela via.
Avrà avuto sui 16 anni, quando io ne avevo 12 o 13. Con gli amici frequentavamo un barettino che aveva 3 o 4 cabinati per videogiochi, all’epoca una partita costava 200 lire.
Apro una parentesi: nel mio paesino, negli anni 80, era possibilissimo stare in giro con gli amici tutto il giorno a 12 anni, e rientrare alle 10 la sera in estate. C’erano pericoli che oggi mia moglie definirebbe “mortali”. O eravamo più fortunati, o più incoscienti… o forse eravamo più grandi, un po’ prima. Chiudo la parentesi.
Questo ragazzo era molto più alto di noi, era quasi un adulto. E ci “rapinava” delle nostre 200 lire faticosamente racimolate con il resto delle commissioni e grazie a nonne generose. Dovevamo pagare pegno e dargli almeno una moneta, altrimenti ci avrebbe “pestato”. Quando giocavi al “suo” gioco e lui arrivava, te lo spegneva per giocarci lui e non potevi ribellarti, perché veniva sempre col suo amico gregario ebete che faceva impressione per quanto doveva essere violento, oppure perché avevi osato “fare il record”. Lo odiavo, ma più che lui odiavo l’idea di “sopruso”, di “ingiustizia” che lui rappresentava.
Mi guardavo bene dal raccontare la cosa ai miei. Mi avrebbero sgridato e vietato di andare al baretto, quasi come se fosse stata colpa mia che frequentavo un locale che non mi si addiceva, come ragazzino. E forse era davvero così. Oppure no?
Un giorno, però, qualcosa scattò dentro di me e smisi di lasciar perdere e di subire. Non gli detti la moneta e lui parve sorpreso. Mi si avvicinò alla faccia chinandosi in una posa da villain manga, con gli occhi assassini.
— Dammi 200 lire, sennò ti picchio
— Pi… Picchiami se vuoi ma non ti do nulla!
— Dai allora picchiami tu, vediamo! - disse allargando le braccia e invitandomi a colpire.
Era un trappola, ma non indietreggiai.
— Perché te la devi prendere con me? cosa ti ho fatto?
Impaziente perché non ero caduto del tranello mi prese la testa sotto braccio, stringendo leggermente e strofinandomi forte sul capo le nocche del pugno.
— Dammi le 200 lire!
Ne approfittai subito. Gli detti una gomitata nello stomaco alla “Double Dragon” e gli urlai:
— Lasciami in pace!
…E in quel preciso momento uscì Ugo da dietro il bancone del bar e questo prese e scappò via. Non che gli avessi fatto male, era il doppio di me… Era il figlio di una persona “notabile” del paesino, e probabilmente era stato avvisato più di una volta dal padre di non fare lo stronzo in giro, che tutti lo conoscevano.
Ci rivedemmo anche in seguito, ma non mi dette più fastidio. Anzi, mi salutava, e smise anche di dare fastidio ai miei amici… non ho mai capito che cosa fosse scattato in lui, ma mi piace sperare che dopo questo episodio sia diventato più rispettoso, più maturo. E anche io lo diventai, di un pochino.
Le difficoltà della vita, da quel momento, non erano più un ignoto spaventoso, ma portavano la faccia da culo di un bullo di paese. Non si potevano surclassare o saltare a pié pari, ma si potevano superare con un po’ di coraggio, concentrazione e un pizzico di fortuna.
Mi rendo conto che storie come queste sono da cartone animato, non sono la norma, che la cattiveria di certi soggetti è immensamente più grande, e che a volte siano vane anche le denunce, gli assistenti sociali, le scuole e quant’altro. E che a volte accade anche il peggio. Sinceramente non sono “attrezzato” a rispondere a situazioni ben più gravi, ma almeno, dopo oltre 30 anni dai fatti della mia infanzia, sono consapevole che esistono, sono attento a che le mie figlie non debbano affrontarli, non da sole quantomeno.
Io sono profondamente convinto, anche alla luce di recenti fatti di cronaca che lasciano il terreno del bullismo per divenire vera e proprie criminalità, che l’educazione in casa sia fondamentale per impedire di crescere potenziali stupratori e assassini. Però non quella del ceffone se non fai quello che dico, ma quella dell’esempio per ciò che faccio. Che da genitore posso sbagliare e sgridarti per una sciocchezza o lasciar perdere una cosa grave, ma è la somma che fa il tutto, e i figli meritano la concentrazione di un genitore quando ti parlano. Magari senza sembrare troppo disponibili ad ogni “fisima”, ma tenendo occhi e orecchie ben aperti per le cose importanti.
O questo è ciò che cerco di fare.
Ho l’impressione che i giovani siano troppo viziati? Inevitabilmente, Sì. Ma anche i miei nonni lo pensavano dei miei genitori e i miei genitori di me. E quindi? Quindi le cose cambiano, ma le reazioni umane sono sempre le stesse.
L’importante è non farsi ossessionare dal dare loro ciò che noi non abbiamo avuto, rimpinzarli di opportunità, di attività extracurricolari, di vacanze studio. Tenerli liberi, ma vicini, in modo che ti sentano e ti osservino, forse fa loro meglio che tenerli alla larga da casa.