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Il valore della comunicazione

Chi ha sulle spalle qualche decina di primavere, potrà dire di aver percepito, con il passare del tempo, un sempre più preoccupante peggiornamento nella qualità della comunicazione, intesa come “comunicazione di massa”. Sto parlando, ovviamente di TV, Cinema e Social Media.

Le trasmissioni in cui, anche semplicemente, l’italiano viene utilizzato con tutta la sua ricchezza di costrutti e varietà di lessico sono sempre di meno. Viene tutto costantemente e inesorabilmente semplificato. Periodi brevi, poche frasi subordinate, scarni “elenconi” puntati senza alcuna articolazione o variazione, un totale piattume sintattico. Ma laddove manca la forma, soffre anche il contenuto. Anzi, agonizza.

Difficile, qui, stabilire da dove sia iniziata questa girandola di schiaffi contro le parole e il loro corretto utilizzo. Se è la TV (o gli altri media, qua non faccio distinzione) a usare un linguaggio più semplice perché gli ascoltatori sono meno preparati, o se gli ascoltatori sono meno preparati perché la TV sta adottando un linguaggio sempre più povero e semplice. O, ancora, in perfetto stile “1984” se la TV e media facciano parte di un grande piano mondiale di istupidimento collettivo, in cui la semplificazione del linguaggio serva a togliere alla massa la conoscenza di certe parole o costrutti, di modo che nessuno possa trovare i temrini giusti per svelare e denunciare la distopica realtà in cui stiamo finendo.

Non sono per natura un complottista, e il “rasoio di Occam” suggerisce alle menti troppo fantasiose di cercare una spiegazione più semplice. E io credo che la soluzione più semplice, che non fa cambiare però l’effetto che osserviamo, sia quella della coscienziosa, scientifica e metodica applicazione dei principi del paraculismo.

Ai grillini e ai Salvini, giusto per citarne un paio che - ricordo per inciso - hanno governato l’Italia per qualche mese, i “professoroni” non piacciono. Piacciono di più i modesti e semplici professorini di provincia, quelli che non ti vogliono fare la lezioncina perché hai sbagliato il congiuntivo, ma quelli che quando parli loro in dialetto nel nord-Africa meridionale annuiscono con sguardo compassionevole e ti danno ragione. Come Conte, per esempio.

Anche la scelta dei loro registri di comunicazione, guidati da Casaleggi e Morisi vari, esperti in materia, è orientata verso il basso. E, per diversi di loro, l’ordine di scuderia di evitare il congiuntivo ogni qualvolta se ne presentasse l’opportunità è valso il seggio in Parlamento.

Dare alla massa la percezione che, per quanto un politico possa avere un ruolo di potere, non è meglio di te che lo voti… non è una brutta strategia.

Perché così sei più vicino alla gente, sei uno di loro. Non devi dare loro la percezione che tu ti voglia in qualche modo “elevare” dalla massa, che tu sia meglio di loro, sennò non ti vorranno ascoltare. Vogliono qualcuno che non suoni troppo erudito ed educato, per potergli dare del bastardo senza chiedersi se lo sia per davvero.

C’è invece chi alla scienza della comunicazione non ci crede affatto e ottiene ugualmente risultati notevoli, tanto per dire… l’attuale Presidente del Consiglio, che sfoggia quando possibile quell’orgoglioso, direi quasi villoso, romanesco. Non è calcolo, è proprio così. La garbatezza, la pacatezza, lo scandire e pronunziare correttamente non è un valore, è un manifesto ideologico cui dare contro. È uno sfregio all’esperienza di vita vera, di vita di strada. Così ti distingui da quei “bastardi melliflui paraculi” dei Locatelli e dei Cottarelli, che con quella proprietà di linguaggio e quella parlata forbita non si sono certo formati all’Università dell Vita, e dunque non sono socialmente accettabili.

C’è infine gente, come Schlein, la “Malcapitata”, che balbetta le tre parole chiave della lotta socialista (“Lavoro!…”, “Diritti!…”, “Solidarietà…”) che se le chiedi di articolare, di approfondire qualunque cosa, ricorre alla supercazzola di ordinanza. Triste.

Allora, di preciso, che valore c’è nel cercare di comunicare in modo comprensibile, che non dia adito a fraintendimenti, o anche solo a voler colmare, con un aggettivo o un avverbio in più, la metrica di quel periodo che altrimenti rimarrebbe come monco, detto a mezza voce? Forse, davvero, non ce n’è di merito in quello che potrebbe solo sembrare un esercizio di stile, o peggio, di vanità ?

Probabilmente non ce n’è. E forse questa specie di “nostalgia” linguistica in cui ho coivolto l’attonito lettore è sintomo di vecchiaia, di non-rassegnazione ad una lingua che sta cambiando, evolvendo, verso l’uso più adatto allo scopo. Una sorta di teoria della devoluzione linguistica per cui in una popolazione drogata dai media di massa si riduce il ricorso alla lingua per i soli bisogni primari. Seguendo le icone su un’app di food delivery, non è nemmeno necessario leggere il menu per poter ordinare e ottenere del cibo.

Del resto che il popolo sia “bue” non è certo un segreto sconosciuto ai più. Non mi si fraintenda: con questo scritto non intendo schernire chi pur profondendo impegno non ottiene la forma verbale, scritta o parlata, desiderata, né intendo pormi su un gradino più elevato, facendo foggia di tanto manierismo. No! altrimenti sarebbe come dare ragione a chi, per contratto, distorce la lingua e abusa dei cavilli linguistici per piegare anche le fattualità più solide, quantomeno, al dubbio che le loro infide parole sottendono.

Ho scherzato, non scrivo veramente in questo modo se non ci metto un bel po’ di impegno. Ma la considerazione vale: che cosa significa una “comunicazione di qualità”? Dove va ricercato il valore della comunicazione? Nei contenuti o nella forma? Probabilmente “nei contenuti” e “nella forma”, ma con quale quota? con quali proporzioni, con quali criteri? Purtroppo nessuno è Barbero, se non Barbero.

Propongo, nella mia umile ignoranza in materia, di applicare sempre, metodicamente, un criterio per valutare il valore di una comunicazione: quello dello scambio equivalente (Full Metal Alchemist, scansati!). Questo podcast, questo post, questa live… valeva il tempo impiegato a riceverlo? Mi ha lasciato qualcosa? Mi ha fatto ridere, piangere, ha suscitato in me qualche emozione che ha appagato la mia sete di essa? Ho imparato qualcosa di nuovo? Mi ha fatto conoscere meglio quella persona che parlava o che scriveva? Mi ha fatto entrare in contatto con conoscenze e concetti che avrei voglia di approfondire?

Sono tutti esiti che hanno un valore, ma come al solito la parte difficile è quella di capire che valore hanno avuto per te. Magari lo realizzerai dopo qualche giorno, quando ti ricapiterà una situazione che te ne risveglia il ricordo, e allora scatterà in te la voglia di scriverne o parlarne, aggiungendo un mattoncino alla narrazione che si arricchirà ancora un po’, per chi arrivierà dopo di te, in un circolo virtuoso che cresce ad ogni iterazione.

In questo contesto, però diventa importante, anche per il comunicatore, essere in grado di valutare quanto grande è diventato l’ingranaggio che ha avviato, per capire se anche il suo tempo è valso il risultato.

Prendo ad esempio la prima puntata di #NuovoBarettoUtopia di TeleKenobit andata in onda lunedì scorso (edit: e anche quella di stasera con Bebo!). Per me è stata una comunicazione di valore, perché mi ha dato lo spunto per affrontare alcune considerazioni sulla natura dell’entertainment da web, sul tempo disponibile e su quello ben speso, che in ultima analisi mi ha anche indotto a scrivere questo post. E per Kenobit credo sia stato un successo almeno equivalente al mio, avendo ricevuto numerosi feedback entusiasti e positivi. Ecco… qui non si è dato alcuno spazio alla monetizzazione diretta, o alla pubblicità, o al politically correct. È stato un dibattito (con Sio) rilassato, onesto e spontaneo. Per cui bravi, andate avanti così!!!

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