L'effimera persistenza dell'identità
Ogni tanto penso che viviamo in una fantastica bolla cognitiva che ci impedisce di vedere un altro aspetto deludente della nostra esistenza in questo mondo. Questo aspetto è l’effimeratezza.
Ne siamo consapevoli fin dai primi anni di vita, ma in qualche modo la nostra biologia e le nostre dinamiche mentali tengono a bada la paura della morte. Invecchiando, me ne rendo conto in prima persona, questa consapevolezza per me riaffiora con la forma di una sensazione di urgenza, di mancanza di tempo. Questa fretta mi induce alla produzione: blog, podcast, progetti nuovi e ambiziosi al lavoro e via discorrendo.
Mi sono preso anche del “bischero” dalla mi’ moglie quando le ho detto che si poteva anche fare un altro figliolo. Ma non le ho confessato che aveva leggermente frainteso.
Credo sia un modo che inconsciamente (ma non troppo) ho scelto per accedere ad una sorta di estensione della mia permanenza in questo mondo, quando le mie spoglie mortali saranno consumate. La speranza che quel che resta di me sarà scritto o registrato, letto o ascoltato, da qualche parte mi fa stare meglio che sapermi immortalato sulla nuda pietra di una tomba.
È strana come sensazione. Quasi come se la mia vita fino ad ora, per me che sono quasi alla soglia dei 50 anni, non abbia lasciato cadere a terra abbastanza semi. Che cos’è? Un desiderio di immortalità? Voglia di eterno declinata per una mente atea? Oppure è una illusione interiore per continuare a desiderare di esistere, anche solo in forma di memoria, pur sapendo che non sarà comunque così?
Perché, in fondo, questa è solo una questione di prospettiva.
In una prospettiva umana, la norma è quella di presenze senza nome che si succedono nei millenni, trasmettendo null’altro che una parte dei propri geni. Alcuni si sono soffermati su questo aspetto, come Dawkins con il suo “Il gene egoista”, lettura di qualche anno fa, ma che consiglio vivamente.
Ma non è questo il punto.
Il punto è quello della volontà, non quello della meccanica genetica.
In una prospettiva generazionale, probabilmente l’orizzonte è più ampio. Ci sono famiglie che mantengono la propria identità e memoria per centinaia di anni, ma non sono così numerose. C’è, ad esempio, questa associazione di famiglie di industriali (almeno) bicentenarie chiamata “The Henokiens” che conta 54 iscritti (https://www.henokiens.com). La più antica famiglia registrata è giapponese ed esiste dall’anno 705, più di 1300 anni. Poi chissà se è davvero così, mi posso benissimo immaginare generazioni senza figli o guerre di successione che in qualche modo avranno manovrato per mantenere il nome in cambio dell’enorme reputazione, ma la sola idea di quanti capofamiglia hanno omaggiato con un bastoncino di incenso l’effigie del patriarca originario è qualcosa di sovrannaturale, di magico. È una prospettiva, al di là delle mondanità e di tutto il discutibile contorno umano, che sinceramente non mi dispiacerebbe.
Però non sono sicuro se è grazie a questi casi eccezionali che l’umanità ha prosperato, ha sviluppato cultura, scienza e tecnica. Forse questo sviluppo è invece da attribuire alla libertà delle nuove generazioni di deviare dalle tradizioni e dagli insegnamenti dei padri. Ma per poter scegliere di non ascoltare una voce, una memoria, un antico testo la si deve necessariamente sentire, conoscere, leggere.
Quindi alla fine la nostra immortalità, la nostra traccia sulla terra non deve essere necessariamente un solco o una strada da seguire. Può, e forse dovrebbe, essere invece un ostacolo, un monito, una preghiera che chiede di “non fare come me!”.
O forse questo è solo una tiepida consolazione di qualcuno che, tanto, non avrà mai così tanta legacy da trasmettere alle future generazioni. Ma vorrei mantenere comunque la speranza che qualcosa sopravviverà, anche solo una parola, un insegnamento, una particella di memoria trasmessa casualmente, amalgamata con altre, sopravvissuta ai secoli, e la speranza che da qualche parte potrà evolversi e dare vita a qualcosa di nuovo, ad una scoperta rivoluzionaria, ad una esistenza straordinaria.
Una considerazione a sostegno del mio ottimismo potrebbe essere che la produzione letteraria o scientifica umana è così vasta che nessuno potrebbe mai leggerla tutta, nemmeno per sommi capi e per categorie. Se questo fosse davvero necessario al progresso, saremo ancora a levigare pietre, accovacciati a piedi nudi. Quello che abbiamo avuto in dote dalla natura è una eccellente capacità di sintesi, che ci consente di catturare l’essenza di qualcosa e farla nostra. Tutti i libri che ho letto, il greco antico, il latino, la storia, la filosofia… non riesco a ricordare chiaramente quasi nulla, ma sono certo che ciò che era importante cogliere è divenuto parte di me. Leggendo queste parole stai facendo tuo qualcosa che era prima solo mio. Mio e di Aristotele, di Sant’Agostino, di Spinoza e di Edgar Allan Poe e di altri milioni di sconosciuti individui che hanno letto, scritto parlato e agito all’ombra della storia e delle cronache.
Oggi tutto ciò che è scritto è certamente on-line disponibile in ogni momento, istantaneamente tradotto, costantemente citato, trasformato. Abbiamo anche inventato enormi caleidoscopi in grado di generare scritti sempre diversi (e qui la citazione di Orwell in “1984” è assolutamente cercata).
Ma anche la rete è effimera.
Si dice che la rete non dimentica, ma non è così. La rete dimentica molto più in fretta di uno scolaretto. Perché un singolo pensiero, uno status, è diluito in un decimi di secondo all’interno di un distopico infinite scrolling.
In questo modo i “contenuti”, che invece sono creati per attirare o respingere il consenso, sono ripetuti, rimpastati, evidenziati in modo diverso, impossibili da evitare. Formano opinioni, generano flussi di idee e pensieri coerenti e gestibili economicamente in massa, nessuna deviazione è possibile se al di fuori della polarizzazione. Non esiste una terza strada. E questo, pressappoco, è il senso della frase sul mio profilo social:
Una scelta tra due opzioni non è una scelta.
Lo vediamo con la guerra nella striscia di Gaza, fatto attualmente alla ribalta delle cronache. Tutte le forze politico/economiche hanno interesse alla polarizzazione, chi per un motivo, chi per una altro. Ma della terza via nessuno ne vuol sentir parlare. Gli uni dicono che è una tattica degli altri e viceversa.
Due poli.
Perché ancora è una faccenda troppo umana per poter essere gestita ad un altro livello di complessità. Ma arriverà un tempo in cui i modelli di linguaggio impareranno a gestire ben più di due flussi di possibile polarizzazione, impareranno a gestire le singole coscienze, conoscendone le giuste chiavi, e appropriandosi delle “deviazioni” di chi, sempre di meno, sarà ancora libero. E questo per generare altro benessere per chi non sa nemmeno che farsene, in fondo. O forse sanno benissimo che cosa farsene, e non mi meraviglierebbe se fosse esattamente la ricerca di questo Sacro Graal dell’immortalità.
L’unica posizione difendibile, l’unico bastione che possiamo rinforzare prima che questo accada, è quello della trinità di diritti fondamentali di pensiero, di espressione e di stampa: se perdiamo l’abitudine ad esercitarli è già tutto finito. Dobbiamo scrivere, parlare, riempire i social delle nostre voci, i blog dei nostri pensieri. Non come quell’industria del contenuto a comando, che rende marionette i tiktokers, gli youtubers, e gli instagrammers.
La vuoi ‘sta nocciolina? E allora balla, scimmietta, facci vedere il culo rosso, ridi!
Non voglio che siamo tutti straordinari, non è possibile, e nemmeno serve. Spero solo che sempre più persone imparino ad essere autentiche, che decidano che le proprie emozioni possono essere condivise, anche se imperfette. Forse i miei discendenti non faranno parte degli Henokiens, potrò perdere anche il nome, ma gocce della mia, e della tua individualità e coscienza saranno diluite in milioni di individui a venire, a patto che abbiamo l’opportunità di essere letti e ascoltati. A patto di avere la forza per rivendicare il nostro diritto a lasciare un segno, un graffio, una microscopica scheggiatura nella stele della storia.