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Podcast: Uno uomo di terra alla scuola del mare

Stagione 01 - Episodio 03

In questo episodio ci sarà probabilmente anche da ridere, dato che ti racconto del primo anno che ho trascorso all'Accedmia navale di Livorno.

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Attribuzioni, riferimenti e ringraziamenti

The World is changing by Movie Theater CC-BY-NC - Attribution-NonCommercial License

Slow dancing with your ghost (instrumental) by Forget the whale CC-BY-NC - Attribution-NonCommercial 4.0 International License

Knock Knock by Podington Bear CC-BY-NC - Attribution-NonCommercial 3.0 International License.

Solar Wind By 1st Contact CC-BY-SA - Attribution-ShareAlike 4.0 International License

Trascrizione

In questo episodio ci sarà probabilmente anche da ridere, dato che ti racconto del primo anno che ho trascorso all’Accedmia navale di Livorno.

Era una uggiosa mattina di gennaio, ero in terza liceo (classico: una volta si contava il primo biennio come “IV e V Ginnasio”, dopodiché si ricominciava con I, II e II liceo).

Entrò il professore di italiano, un distinto “quasi” cinquantenne partenopeo, con un paio di baffoni arroganti e la testa piena di riccioli. Eravamo 4 maschi in classe: Paperone, Gastone, Paperoga e Paperino.

Ci guardò, e poi venne direttamente da me con l’opuscolo dell’Accademia Navale di Livorno e me lo consegnò senza dire nulla. Io lo presi e lo guardai. E poi lo lessi e lo rilessi. E dentro di me iniziò a prendere forma un’idea strampalata, a cui non avevo MAI pensato prima… e decisi di provare a fare il concorso per entrare. I miei inizialmente non mi presero sul serio, ma poi capirono come stavano le cose quando portai loro i moduli di conenso che dovevano firmare, perché io ero ancora minorenne.

Mi ci vollero 2 o 3 mesi per dire della mia idea geniale a mia nonna paterna.

Il mio nonno, suo marito, era stato volontario in Marina allo scoppio della seconda guerra mondiale, come radiotelegrafista, era stato fatto prigioniero, ed era sopravvissuto. Purtroppo non abbastanza perché io potessi conoscerlo.

C’era stato anche un cugino zio di mio nonno, pochi anni prima,anche lui volontario in Marina radiotelegrafista, purtroppo disperso in seguito all’affondamento del sommergibile Francesco Baracca, al largo della costa spagnola, negli anni ‘20. Temevo, anzi ero sicuro, che avrebbe avuto qualcosa da ridire. Invece mi abbracciò piangendo, e dicendomi che era preoccupata, ma che sarebbe stata orgogliosa di me.

Basta. Finito. Quando la nonna mi disse così, caderono tutte le riserve che potevo avere, e divenne una cosa quasi fatta.

Quasi.

Invece, pur superando gli esami medici e fisici falli laddove meno me lo aspettavo: al tema di italiano. Ci rimasi male, detti la colpa a qualche paraculo che avevano dovuto far passare prima di me e mi ritrovai studente di Ingegneria Gestionale al Politecnico di Milano… ma questa è materia di un’altra puntata… avanti veloce fino al 1996.

Ritentai il concorso, dopo aver lasciato trascorrere due anni dalla prima volta, e questa seconda volta superai anche il tema, con un 29/30.

C’era un ultimo ostacolo, ovvero una sorta di “tirocinio” di 4 settimane da trascorrere proprio in Accademia, durante il mese di Agosto. Mi avrebbero dato una divisa, avrei dovuto adeguarmi alla disciplina e alle regole militari, e alla fine avrei sostenuto un esame orale di matematica e geometria… se avessi almeno avuto il fegato di tuffarmi dalla piattaforma dei 15 metri.

E qui iniziò quello che io chiamo “il mio anno di estraniazione”.

Il tirocinio non fu per nulla male, se non che di un migliaio circa che eravamo rimasti (sui circa 20000 iniziali), scaglionati di uno o due giorni, saremmo rimasti poco più di un centinaio. Fu intenso, ma ricordo la mia carica di tenacia e motivazione.

Dopo l’esame uno degli ufficiali che si occupavano di noi concorrenti mi strinse la mano e mi disse che “avevo le palle”. Avendo l’accento lievemente livornese mi suonò quasi come una domanda… e senza pensare replicai: “Diammine!” guardandomi… in basso!

Non ce la fò… ero un campagnolo di provincia, per quanto mi avessero educato bene i miei… non ce la potevo fare! Vedevo invece tanti di quelli che poi sarebbero diventati i miei compagni di corso già impostati, in diversi “figli d’arte”, che sapevano già tutto.

E io che invece non sapevo nulla.

Mi arrivò il telegramma di convocazione come vincitore del concorso i primi di settembre, per la settimana seguente, una sorta di “Simone! lascia tutto e seguimi”. E io seguii.

Mi ero classificato secondo. Ero Vice-Capocorso. Imparai solo in seguito, quanto quel titolo, che alle mie orecchie suonava tipo “capoclasse”, sarebbe stato importante nei successivi avanzamenti di grado e di carriera.

Allora non mi interessava essere primo. Io volevo stare in disparte, in penombra a imparare, sviluppare competenza e fare cose. Non amavo l’esposizione. Invece mi toccò questa cosa che attirava invidie, che mi disegnava un bersaglio sulla schiena da martellare per i superiori, e da pugnalare per i (pochi per la verità) compagni ambiziosi.

Quel bersaglio mi faceva essere automaticamente responsabile per mantenere l’ordine e il silenzio durante le lezioni, nel grande studio dove ognuno aveva un banchino co i propri libri, nella presentazione del dormitorio o della mensa. Tutte occasioni che, ripetutamente, mi facevano guadagnare rapporti disciplinari, giri di corsa del piazzale, detti di “potenziamento psico-fisico”, e giorni di consegna (giorni in cui non avevo periodi di pausa, di ricreazione a disposizione durante la giornata e non potevo andare in franchigia, la libera uscita).

Il primo anno dell’Accademia, da settembre a giugno, su 240 giorni, fui consegnato per 113.

Ma questo era un aspetto di minore importanza. Quello che tolleravo di meno era il continuo e costante “martellamento” psicologico messo in atto sistematicamente, e istituzionalmente, dagli “anziani”, gli allievi della seconda classe.

Era una pratica chiamata “spivolatura”. Il concetto è semplice: in prima classe sei un “pivolo”, un noob, e devi essere “svezzato”.

Anni prima del mio ingresso questo svezzamento avveniva con le mani, mentre ai miei tempi aveva perso molta della fisicalità ed era più psicologica.

La disciplina imponeva di fare il saluto militare verso tutti, anche gli anziani, e di rimanere immobile sugli “attenti” quando ti rivolgevano la parola.

Non entrerò nei dettagli, ma penso si possa immaginare cosa può voler dire, in un ambiente interamente testosteronico come si evolveva da queste premesse (di allieve non se ne parlò per altri 4 anni a seguire).

Il periodo di massima pressione era quello dei primi mesi, fino al giuramento che sarebbe avvenuto a Dicembre, per Santa Barbara.

Dopodiché questa pratica si spense piano piano, ma non sarebbe mai del tutto finita. I miei compagni di corso che oggi occupano anche posizioni dirigenziali nella Marina Militare, lamentano tutt’ora che “gli anziani” li spivolano ad ogni occasione… Mai una gioia!

Fin qui ho parlato di tutto ciò che disturbava il mio supposto equilibrio, la mia “normalità”, ma l’Accademia NON era solo questo.

L’accademia, per chi l’ha frequentata è un luogo di riferimento morale, un luogo da cui è obbligatorio passare, che possiede una ieratica sacralità, in cui il tempo è scandito dalle “trombe”, dove prima di ogni momento importante ci si riunisce in “sezione” tutti schierati in piazzale, si fa il saluto, si ascolta la preghiera del marinaio e il silenzio, si “presenta” la sezione, la classe o la “brigata allievi” ai superiori, che ti ispezionano nella cura personale, nei modi, nella forma militare.

Un luogo dove si rimane sul “presentat arm” per tutto il tempo necessario, dove si deve infondere massima attenzione e cura quando si annoda o quando si ripiega la bandiera, all’alba e al tramonto.

È un luogo con tantissimi riti, addirittura più delle vere e proprie regole, e un limitato spazio per l’individualità, dove un ragazzetto di provincia nato e cresciuto in una valle dell’entroterra, abituato ai videogiochi, ai fumetti e alla pasta al forno della nonna aveva solo da stare in silenzio e pregare di sopravvivere.

“Siete solo pigiama e playstation!!!”, come ci diceva l’istruttore di nuoto parafrasando Robert De Niro, quando a gennaio, alle 7 di mattina urlava: “40 vasche a stile libero, via! via! via!” con l’acqua diaccia che sembrava di frigo… “ Così vi ci scaldate per tutto il giorno! (grazie al cielo le docce subito dopo erano bollenti!).

Tutto serviva a “decostruirti”, a farti perdere le tue certezze, le tue zone di comfort, a farti raggiungere e superare i tuoi limiti psichici e fisici riconoscendoti umile, affaticato, dolorante ed esasperato. E poi, pian pianino, un poco alla volta, ti ricostruivano secondo un altro schema, più semplice, più spartano, dove sono poche le cose che contano… e la cameretta a 4 del secondo anno, invece del dormitorio da 40 persone ti sembra già il Westin Excelsior.

Adesso forse è più chiaro perché l’ho chiamato “l’anno di estraniazione”. Perché a parte alcuni eventi significativi, il giuramento, le vesciche nei piedi, il campo di addestramento con gli incursori e le relative scene memorabili di sbrocco, gli esami… per tutto il resto ho sempre raccontato che “non pensavo: facevo continuamente cose, le giornate mi duravano il doppio”, ma soprattutto “Ho scoperto che in 5 minuti si possono fare più cose di quelle che si riescono a dire”.

Il dovere, il senso del sacrificio, la fiducia nei compagni, la fiducia verso Mamma Marina. Tutte qualità necessarie per un ufficiale di Marina, futuro comandante di navi da guerra. Questo è il payload che l’Accademia di da. Acquisirlo o no però dipende dal singolo.

Ho imparato a fare tante cose, a portare imbarcazioni, ad andare a vela, a fare nodi, tanti nodi, e ho avuto a che fare con molte persone, alcuni diventati amici di una vita, ma anche qualche individuo odioso. Molta della “propaganda” dai toni quasi “ventenniali” non l’ho mai condivisa, anche se per davvero ho creduto di essere un cittadino esemplare quando mi sono offerto volontario.

Ho pensato di essere in grado di sacrificarmi per l’idea di Patria o Onore che avevo da ragazzo, ho creduto che davvero avrei potuto fare la differenza. E non mi sono mai pentito di tutto questo. Invece ho anche aperto gli occhi, ho anche imparato a ragionare con la mia testa, e non mi sono mai pentito delle scelte che ho fatto. Le rifarei tutte.

Solo che a un certo punto della vita le tue priorità cambiano, vedi un futuro prestabilito che per quanto prestigioso e accogliente non è quello che ti saresti immaginato. Qualcuno resta e qualcuno cambia rotta, ma non c’è maggior merito in nessuna delle due scelte. Sono entrambe coraggiose, sono frutto di intenso pensare e improvvisa risoluzione, non c’è esitazione in nessuna della due.

Cosa mi ha lasciato questa esperienza, oggi che la racconto ad una ragazza di vent’anni che non sa cosa fare della vita, dei sui mezzi talenti e dei suoi sogni? Cosa posso suggerire che non sia banalmente “entra anche tu in Marina e vedrai?”. Posso dirle di non temere di non farcela. Posso dirle che se vuole qualcosa deve essere disposta a non risparmiare alcuna forza, che non deve temere di cadere? Che bisogna rispettare se stessi e non cedere tutto a chi ti vuole depredare della tua identità? Che non temere: puoi essere, o meglio, puoi trovare te stesso più facilmente nei momenti di difficoltà?

Probabilmente qualcosa del genere.

Probabilmente qualcosa del genere proverei a dirlo, però quello che mi sento di dire più nel profondo è “Trova dei compagni” con cui puoi condividere le gioie della vita, la giovinezza. Dei compagni che quando cadi sono pronti a rialzarti, compagni grazie ai quali puoi dare tutta te stessa a ciò che desideri senza doverti preoccupare. Io devo ad alcuni dei miei compagni la forza di arrivare in fondo alla prima classe.

Ti saluto e ti auguro buon vento in poppa.

Ciao!

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