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Podcast: Ritorno alla 'civiltà'

Stagione 01 - Episodio 05

Fino ad ora ti ho parlato della mia vita da bambino, dell'Accademia Navale e dell'imbarco sui sommergibili. Adesso ti voglio raccontare del mio ritorno alla vita da adulto e da civile. Quale motivazione mi ha indotto a lasciare una carriera totto sommato niente male, con la prospettiva di diventare un comandante di navi da guerra, quando ero ad un solo piccolo passo? Cosa mi ha fatto cambiare idea?

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Attribuzioni, riferimenti e ringraziamenti

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Trascrizione

Fino ad ora ti ho parlato della mia vita da bambino, dell’Accademia Navale e dell’imbarco sui sommergibili. Adesso ti voglio raccontare del mio ritorno alla vita da “adulto” e da “civile”.

Quale motivazione, prima di tutto, mi ha indotto a lasciare una carriera tutto sommato niente male, con la prospettiva di diventare un comandante di navi da guerra, quando ero ad un solo piccolo passo? Cosa mi ha fatto cambiare idea?

La motivazione non è una sola, né è facile stabilire un ordine di importanza e priorità.

Parliamo prima di tutto del mio complesso dell’impostore. Questa sensazione di sentirmi sempre, in qualunque circostanza, valutato più di quello che realmente mi sento di valere. La paura che data una certa posizione di lavoro o sociale, mi vengano associate aspettative che temo di non saper affrontare, o sforzi che non penso di riuscire a sostenere per farlo.

Questo è un elemento che mi ha sempre influenzato in molte scelte, lo riconosco.

Durante l’ultimo anno in Marina avevo pensato molto alla mia carriera futura. Che prevedeva un periodo di un annetto chiamato “Scuola Comando” in cui comandanti molto più “anziani”, assieme ad alcuni dei miei compagni di corso, mi avrebbero insegnato, valutato, sgridato, messo alla prova e anche umiliato. Questa cosa mi pesava tantissimo e non la volevo fare. Non ne vedevo l’utilità: se si trattava di assumere responsabilità, probabilmente avevo da insegnarne a tutti. Se invece si trattava di imparare a svolgere pratiche più “amministrative”, mi sarebbe bastato qualche buon libro o pubblicazione ufficiale da studiare. In ogni caso era un ostacolo che avrei volentieri evitato di affrontare, se avessi potuto. Stavo bene nella mia bolla di comfort che erano diventati i sommergibili.

Poi, nel 2007, al rientro da 4 mesi di missione in Golfo Persico, ebbi un incidente in moto. Avevo una bellissima Moto Guzzi, rossa fiammante. E dopo quel giorno non l’ebbi più. Mi ruppi il polso sinistro e mi slogai la caviglia destra, e stetti in convalescenza per 3 lunghi mesi. Per tornare in servizio non bastava che togliessi il gesso, dovevo essere in totale padronanza del corpo. Cosa che dopo 3 mesi, più o meno, avvenne.

Trascorsi la convalescenza a casa, dai miei, lontano da Taranto, dove ero assegnato. Dopo l’operazione al polso, per un mese abbondante, sono stato in sedia a rotelle perché non potevo camminare (mi ha dato più problemi la caviglia slogata che il polso). Mio padre, che non si era mai rassegnato al fatto che io avessi lasciato casa per la Marina, mise dunque in atto il suo schema di riappropriazione dell’unico figlio. Non che non me ne rendessi conto, si capiva bene.

E dunque iniziò a chiedermi come andava, quanto mi rimaneva di “leva obbligatoria”, cioè il “contratto” che mi legava alla Marina, firmato da me all’inizio del terzo anno di Accademia, in scadenza alla fine dell’anno in corso, se ero soddisfatto etc, etc… Per poi lasciar sferrare il colpo alla sua “socia”, durante un pranzo, che mi chiese se volessi venire a lavorare per la loro azienda. Che avevano bisogno di una persona di fiducia, che il business stava crescendo, che ci si doveva spostare verso l’automazione e l’informatica industriale… Insomma un “grido” di aiuto lanciato da un padre verso il figlio.

Poi c’era l’aspetto emotivo. All’epoca ero fidanzato con la mia attuale moglie. Lei abitava in Puglia, non lontano da Taranto. E avevamo stabilito di sposarci l’anno successivo. Questa situazione era la più spinosa. Io mi ero convinto, dopo anni di osservazione dei miei colleghi di Marina che si sposavano o che erano sposati da tempo, magari con figli, che il matrimonio in Marina era un’idea… rischiosa.

Soprattutto per un “outsider” come me. Io ero toscano, “ospite” in quanto marinaio di Taranto. Ma c’erano moltissimi colleghi originari di là, e troppi pochi “posti” per poterli assegnare tutti quanti a Taranto. Era dunque una guerra per farsi assegnare “a casa”, a scapito di altri. E uno come me rompeva le palle. Io sarei stato quello che non avrebbero mai fatto stare a Taranto.

Appena fossi salito di grado mi avrebbero affidato una unità, per dire in Sicilia, dopodiché un posto a Roma per qualche anno, poi forse alla Spezia. Sarei ritornato a Taranto, forse entro una decina d’anni, per starcene due o tre, e poi essere rispedito altrove. Non potevo restare là a tenere il posto di qualcuno a cui “spettava di diritto naturale”.

E tutto questo come lo avrei potuto conciliare con un matrimonio di una ragazza che si aspettava una vita con me? A cosa stavo andando incontro? Ad una vita da nomade solitario in attesa di tornare a casa di tanto in tanto? Oppure avrei fatto fare la nomade anche a mia moglie? E ai figli?

No. Non poteva funzionare, anche se lo speravo.

D’altra parte mia moglie si era creata delle legittime aspettative, cioè di vivere nella sua città natale, vicino alla sua famiglia. Sì aveva sperimentato che il mio lavoro mi avrebbe portato fuori per lunghi periodi, aveva percepito che era una vita di viaggi e luoghi, magari anche sperato di poter fare da passeggera, ma forse non era del tutto consapevole dei sacrifici, da entrambe le parti, che avremo dovuto fare anche solo per stare vicini un giorno in più.

Quindi tutta questa lunghissima serie di considerazioni, più alcuna di minore peso, in cui nessuna ha prevalenza sulle altre, hanno determinato un drastico cambio di rotta nella vita di giovane trentunenne.

Cosa avrei dovuto fare? Ignorare tutti i segnali che avevo per restare invischiato, per sempre, in una carriera militare, che a parte i “comandi” di navi obbligatori mi avrebbe comunque visto per la maggior parte del tempo in un ufficio in uno scantinato del Ministero? Oppure provare a cambiare tutta la prospettiva? Provare a fare qualcosa di diverso? Avrei dato quella spinta all’azienda del babbo per riuscire ad emergere e diventare “l’azienda leader del mercato”? O anche queste erano illusioni destinate a sgretolarsi perché fondate su menzogne? Lo saprai in un altro episodio… per questo siamo arrivati vicini alla fine.

Insomma, per tirare le fila del discorso, so solo che ad un certo punto, presi la mia decisione. Mia moglie non l’accettò di buon grado. Discutemmo seriamente. A volte torna fuori il discorso, nei momenti più difficili. Ma so anche che siamo ancora qui, insieme, e che io l’amo più che mai in vita mia.

A più di 15 anni di distanza da queste vicende, mi sento solo di dire che rifarei le stesse scelte. Probabilmente le farei con maggiore cautela, dando molto più spazio alla discussione insieme. Riconosco che all’epoca fui abbastanza laconico e fermo. Quello fu l’errore più grande. Avrei dovuto capire, come ho fatto poi al 90’, anzi nei minuti di recupero, che su mia moglie potevo contare. Che voleva parlare, capire, decidere con me, perché era anche la sua vita, non solo la mia. E che il suo interesse era solo trascorrerla INSIEME.

E siamo giunti al termine anche di questo episodio. La prossima volta ti racconterò dello stile di gestione di una piccola azienda a conduzione quasi familiare, e che cosa, secondo me, non ha funzionato!

Grazie per la tua attenzione a alla prossima!

Ciao!

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