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Podcast: La Multinazionale

Stagione 01 - Episodio 09

Vi ho raccontato del progetto (per adesso) più ambizioso a cui ho partecipato negli ultimi due episodi, vi avevo già anticipato la fine del mio rapporto di lavoro con la piccola azienda di mio padre, e che ero rimasto in una situazione piuttosto difficile.

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Attribuzioni, riferimenti e ringraziamenti

Rock Opener - Short by Lite Saturation is licensed under a Attribution-NoDerivatives 4.0 International License.

Voyage I - Waterfall

Voyage II - Satori

Voyage III - Teh Space Between Us

di The Kyoto Connection Sono concessi con licenza CC-BY-SA

Trascrizione

Ben ritrovati per questo ultimo appuntamento di stagione, che in qualche modo termina pur senza esaurire le storie più autobiografiche che ho da raccontare. Ma andiamo senza ulteriore indugio al tema principale, così potrò concludere con altre considerazioni alla fine.

Vi ho raccontato del progetto (per adesso) più ambizioso a cui ho partecipato negli ultimi due episodi, vi avevo già anticipato la fine del mio rapporto di lavoro con la piccola azienda di mio padre, e che ero rimasto in una situazione piuttosto difficile.

Ad aprile del 2015 mi ritrovai in grosse difficoltà economiche e non potevo restare più senza uno stipendio, che l’Azienda del babbo non pagava più da due o tre mesi. In quel momento anche lui non stava bene. Si era ricoverato per un intervento alla prostata, e durante l’intervento ebbe un infarto, da cui si riprese con un paio di stent coronarici.

Io nel frattempo avevo aggiornato il CV e l’avevo inviato per un annuncio che avevo trovato su LinkedIn. Cercavano uno specialista di automazione e IT industriale, senza specificare troppi dettagli; l’azienda era di recruitment, quindi non avevo neanche idea di chi fosse il cliente finale, ma era su Firenze e dunque non persi tempo. Mi contattarono e ebbi un breve colloquio. Dopo qualche giorno mi richiamò un signore indiano (che poi sarebbe stato il mio “capo”) che mi “interrogò” telefonicamente, in inglese, su come funzionassero i lettori di barcode in una e due dimensioni. Non che ne avessi avuto grande esperienza, ma sapevo come funzionavano e a cosa servissero. Speravo fortemente che non fosse un lavoro al pubblico, perché non sono proprio portato, ma avrei accettato qualunque cosa…

Poi mi chiese dei database SQL, che conoscevo sebbene non sotto il profilo di amministratore: sapevo fare query e impostare semplici database, ma nulla di troppo avanzato.

E infine mi chiese con quali PLC avessi lavorato… Mentre parlavo, eravamo in videoconferenza, lo vedevo sbadigliare copiosamente ed ero preoccupatissimo che non fosse molto interessato a quello che avevo da dire.

Si era presentato come Project Manager di una multinazionale indiana, la TCS (Tata Consultancy Services… sì, una azienda del gruppo che fa anche le automobili Tata). Io, lì per lì, non la conoscevo se non appunto per le auto. Dopo la chiamata andai a cercarla e rimasi con la mascella slogata. Era un colosso da 300.000 dipendenti in tutto il mondo e offriva servizi e soluzioni IT a tantissime altre multinazionali.

Qualche giorno dopo ricevetti una chiamata da un ragazzo italiano, che mi raccontò più o meno in che cosa consisteva il lavoro e soprattutto chi fosse il cliente finale. TCS aveva degli uffici in Italia, a Milano, ma non a Firenze. Il motivo era che io sarei andato a lavorare presso un loro cliente della zona. A parte una grande aziende della zona che compariva nella loro lista clienti, non conoscevo altre aziende. La Ferrari e la Generali, non avevano le loro sedi a Firenze… e poi a che gli servivano i codici a barre?

In realtà il cliente era una multinazionale farmaceutica stabilita nel fiorentino da diversi decenni… che io avevo forse solo sentito nominare. Il mio ruolo era quello di responsabile del servizio di supporto tecnico per un nuovo sistema che era in via di introduzione sulle linee di confezionamento (packaging) dei loro prodotti. Il sistema serviva a “serializzare” tutte le confezioni singole, le scatole e i pianali applicando di codici “datamatrix” con un identificativo univoco. Era un sistema di “track and trace” che iniziava ad essere richiesto dalle varie agenzie regolatorie dei farmaci di molti Paesi. Era un sistema non troppo complicato, ma articolato. Erano stati aggiunti, alle varie linee, dei sistemi di visione per rileggere questi codici, erano state realizzate delle interfacce con le stampanti ad ablazione laser e con quelle ad etichette tradizionali, c’erano camere per controllare le singole confezioni all’interno delle scatole, c’erano lettori di codici a barre per le operazioni manuali e il tutto veniva registrato su un database centralizzato. Avevo tre linee da supportare e un solo collega.

Vi ricordate nell’episodio scorso, quando mettemmo a punto il sistema di supervisione del tunnel? Ta-daan! Colpo di scena! Il mio collega di allora era il mio collega anche in questa nuova avventura! L’emozione nel sapere che avrei lavorato ancora con lui era tanta, ero proprio felice. Lo apprezzavo molto per la sue precisione e metodicità, insieme eravamo, e saremo di nuovo stati, una bella squadra! Anche lui aveva fatto il mio stesso processo mentale e ci eravamo ritrovati. Il nostro capo lo sapeva, aveva fatto bene i compiti, e ci aveva rimesso insieme!

Certo, eravamo un po’ “overqualified” per la posizione di supporto tecnico… ma nessuno di noi aveva intravisto opportunità migliori in quel momento. E poi vivevamo entrambi a pochi kilometri di distanza dalla fabbrica… era certamente un bel “plus” per noi.

Per me era la prima esperienza con una multinazionale, e c’erano decine e decine di corsi e training da fare per comprendere come era articolate. Sì, perché dovevo conoscere le procedure della mia nuova azienda, ma anche quelle dell’azienda cliente. Che era una farmaceutica e quindi di procedure ne aveva a quintali! Ogni cosa andava documentata, ogni problema evidenziato (ricordate la mia specialità?) analizzato e risolto, il rigore richiesto era il top del top rispetto a qualunque altra realtà aziendale che io avessi conosciuto fino a quel momento.

Il nostro lavoro costituiva un piccolo pezzettino di una missione molto più seria: dare ai pazienti medicine sicure, di origine verificabile, prodotte con la massima cura ed attenzione. Sono certo che alcuni potranno storcere la bocca, sentendo parlare in questi termini di “big pharma”, ma posso assicurare che è realmente così, almeno nella realtà che conosco. Io non ho il potere di leggere nel pensiero delle persone, dei presidenti e dei finanziatori, ma so che quello che faccio IO è veramente solo ed esclusivamente per questo scopo. Non voglio innescare discussioni sull’eticità del far pagare prezzi molto alti per certi medicinali: questo non dipende da me. Però sono certo di una cosa: ricercare, sperimentare, documentare e produrre farmaci è un processo estremamente costoso, forse più costoso della ricerca spaziale o della fisica delle particelle. Qualcuno anticipa dei soldi per pagare ricerca e sviluppo, e si aspetta un guadagno. Se questa scommessa è ripagata, allora investirà ancora e si faranno più e migliori medicine, che nel tempo diverranno generiche e disponibili a costi più accessibili, altrimenti le farà qualcun altro, o forse nessuno più.

Ma qui mi fermo, ripeto, non è mia intenzione inerpicarmi in un discorso su modelli economici: prendo atto che questo è il mondo che ho davanti e cerco di fare del mio meglio per dare alla mia esistenza un senso.

Rientrando in traccia… In azienda c’erano molti altri “consulenti esterni” come me e il mio collega, che facevano tante cose. Tutto sommato, dopo qualche mese di studio e problemi ricorrenti, avevamo il controllo e la competenza per rivoltare il “nostro” sistema come un calzino. Era il momento di “espandere” la nostra nicchia di lavoro, di venderci anche per fare altro. Avevamo bisogno di un nuovo collega perché in sole due persone diventava pesante supportare una produzione che andava avanti 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Lavoravamo in azienda di giorno e facevamo turni di reperibilità notturna… e le chiamate erano piuttosto frequenti. E questo collega arrivò, ma solo dopo una “falsa partenza” con un altro collega che non durò nemmeno un anno, e di cui mantengo gelosamente un “santino” come talismano…

Eravamo adesso in tre. La “recluta” era un ragazzo più giovane di noi, molto sveglio e veloce ad imparare. Peccava un po’ di impazienza, ma con la giusta guida diventò un pilastro importante. Iniziammo a dare la nostra disponibilità anche per altri piccoli “task”, zone grigie che nessuno voleva esplorare e acquisire… e così anche il cliente iniziò a volerci bene, ad apprezzare come ci autogestivamo, ad apprezzare il modo in cui avevamo acquisito ed esercitavamo il rigore necessario. Iniziavano a chiamarci alle riunioni tecniche per dare il nostro parere (non male eh?)… e alla fine… dopo 5 anni… Ho applicato per una posizione aperta direttamente dal cliente e sono stato assunto non più come consulente esterno, ma come dipendente diretto. E dopo un annetto, anche il mio collega di lungo corso ha fatto il grande passo. E da qualche giorno anche il più giovane!

Una cosa più unica che rara. 3 consulenti esterni della stessa azienda, tutti e tre apprezzati, tutti e tre internalizzati nel giro di un paio d’anni… Quando ci penso sono contentissimo. Vedere che tutti quanti abbiamo superato le aspettative non può che rendermi orgoglioso dei miei amici e colleghi… e un pochino di merito me lo prendo per me, che ero il “leader” del gruppo e per quanto poco credi averlo influenzato in senso positivo. Lasciate che mi goda un po’ questa piccola vanagloria…

E questo, infine, ci porta al presente. Ora non mi occupo più di supporto tecnico, o meglio “anche”: lavoro nel team responsabile dei computer systems di manifattura, e mi occupo delle architetture e dell’integrazione tra i sistemi IT e quelli di automazione. Ho un certo spazio anche per sperimentare, fare mentoring ai più giovani, proporre e portare avanti le mie idee di miglioramento dei processi e di robustezza dei sistemi. E sono contento.

Ne sono passati di anni da quando mi congedai dalla Marina, con gran fragore di nonne e zie, ma sono sempre quel marinaio scanzonato e a volte anche sboccato. Lo stress e l’ansia, per fortuna sono pensieri del passato e oggi, come non mai, guardo avanti con orgoglio, curiosità e tanta voglia di fare!

E sia, con questo concludo la prima stagione.

Già, ma che cos’è, alla fine, una stagione? Una stagione dura 3 mesi, primavera, estate… o no? Non è che Netflix ci ha confuso per bene le idee? Mah… alla fine non lo so che cos’è. Più che stagione lo chiamerei “arco narrativo”, come ha più senso fare anche nei manga… Quanto dura una stagione? Finché dura l’arco del racconto, finché non si giunge ad una conclusione soddisfacente. E per me questo arco narrativo autobiografico lo possiamo considerare concluso in modo soddisfacente. Non escludo deli “spin-off”, cioè degli episodi pescati dalla mia memoria per affrontare un tema particolare, ma vedremo se e come proseguire. La storia principale è finita, ma non esaurita!

Mi prenderò un mese o due di pausa dal podcast, per buttare giù qualche idea, ma non sarò irreperibile: bazzico sempre su LivelloSegreto a fare un po’ di shitposting, o su LinkedIn a fare il “finto serio”, e ho sempre il blog, un po’ trascurato ultimamente, ma con alcune buone idee da sviluppare.

Quindi grazie per avermi seguito fino a qui, per questa prima stagione improvvisata, e a presto, sempre su questi schermi!

Ciao!!!

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