Podcast: S02 "La bottega di Efesto" - Ep. 03
Stagione 02 - Episodio 03
Incendi da Social e marchetta al Fediverso
Questo episodio del podcast è rilasciato con licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International License.
Attribuzioni
Musica: Kevin Hartnell- Earth and Stone Source: freemusicarchive.org Licenza: CC-BY-SA
Riferimenti
The Verge - Social media platforms are not built for this
Trascrizione
Ho letto questo articolo di Mia Sato, pubblicato su The Verge… il link, come tutti gli altri che cito nel podcast, sono riportati sempre sulla pagina dedicata all’episodio su 77nn.it.
Questo articolo, dicevo, descrive il disagio e la frustrazione che ha provato l’autrice quando si è accorta che la pagina “For You” su TikTok era divenuta una vetrina di centinaia se non migliaia di video di devastazione, fuoco, fiamme, richieste di aiuto per sé stessi, i propri cari e i propri animali domestici, persone - influencer e sconosciuti - in fuga da quelle che erano un tempo le loro case, adesso in procinto di essere inghiottite dalle fiamme… disperazione e incredulità…
Eppure non è la prima volta che i social come TikTok catturano questo tipo di reazioni di fronte ad una catastrofe
(che con un po’ di riluttanza chiamerei “naturale”, ma solo perché in qualche modo associo la naturalità all’incontrollabilità).
Altre volte però i video dalle zone colpite da altre calamità, come durante l’urgano Milton qualche settimana fa, provenivano da influencer che rimanevano di proposito nell’area della crisi per continuare a produrre contenuti virali. Stavolta no, invece, il fuoco è probabilmente molto più persuasivo quando si tratta di sfuggirgli e salvarsi la pellaccia…
Ad un certo punto, nell’articolo, Mia riporta una frase di un critico TV (che non conosco, ma che deve essere noto negli Stati Uniti) che dice pressappoco: “TikTok è ampiamente indifferente del fatto che io viva o muoia”.
In che modo, mi chiedo, la cosa potrebbe essere diversa da cosi? Perché ti aspetti umanità, solidarietà, e conforto dall’Algoritmo (con la A maiuscola)? Che cosa dovrebbe fare se non frapporre video di makeup o trucchi a immagini di furia incendiaria? In che modo potrebbe impedire la promozione di pose culturiste tra immagini di disperazione e richieste di aiuto?
Ma soprattutto, e qui divento proprio cattivo, perché le persone, tralasciamo gli influencer (loro non sono persone per davvero), perché le persone affidano questi istanti che potrebbero anche essere gli ultimi delle loro sconosciute vite, a volerla vedere male male, ai social? Perché chiedono informazioni al un improbabile pubblico che magari nemmeno si trova nella zona (ce li vedere gli sfollati che fanno doom scrolling su Tiktok???), e soprattutto affidandosi ad una applicazione che NON pubblica in ordine cronologico e non può nemmeno dare la sensazione dell’evoluzione di fatti?
Ragazzi, ragazze, seriamente: dimenticate il Twitter che era fonte privilegiata di notizie prima dell’avvento di Elmo. Dimenticatevi pure Facebook, che non lo è mai stata e che lo sarà ancora meno quando inizieranno a scollegare il fact-checking dai contenuti. Dimenticatevi i social network come strumenti che possono all’occorrenza diventare socialmente utili. Non lo sono. Non lo sono mai stati e se fino a qualche tempo fa potevano avere un senso immaginati anche in certi contesti, l’avranno sempre meno.
Lo scopo dei social network, cosiddetti commerciali, non è quello di fornire un qualsivoglia servizio a chicchessia (utente o inserzionista), ma estrarre il massimo profitto da entrambe le parti. Questa dinamica è riconoscibile ed ha un nome. Quel nome è “enshittification” (in italiano “immerdificazione”). Ho scritto un post qualche tempo fa in merito: lo potete trovare sul mio blog con anche il link all’ormai celeberrimo articolo “Social quitting” di Cory Doctorow, nei riferimenti.
Perché ho evidenziato il termine “commerciali”? Perché esistono dei social network che commerciali non lo sono. Come ad esempio l’insieme dei server federati che chiamiamo Fediverso, una rete di applicazioni sociali differenti che però parla la stessa “lingua” e lascia comunicare sulla stessa timeline:
- chi posta storie o fotografie su Pixelfed
- chi pubblica stati di poche centinaia di caratteri con Mastodon
- chi ama esplorare il web con aggregatori in stile Reddit, con Lemmy
- chi pubblica podcast con Castopod
- chi streamma live con OwnCast
- chi pubblica video con PeerTube
- … … Ne ho lasciato fuori qualcuno? Certo che l’ho fatto, sono letteralmente decine le possibilità di socializzare che sono messe a disposizione da una scoppiettante comunità open-source fatta di volontari, attivitsti e semplici netizen in cerca di quel romanticismo pionieristico delle BBS degli anni 90, o delle altrettanto mitiche Geocities.
Chiunque può creare il suo server individuale con una spesa tutto sommato sostenibile di qualche decina di euro all’anno, come ho fatto ad esempio io stesso con la mia istanza ActivityPub basata sul software GoToSocial, che gira sul Celeron vecchio di 10 anni sulla mia scrivania.
Non è certo tutto oro quello che luccica, però. Le acque sono sempre infestate dagli squali di turno, da coloro che sgomitano per ricavarsi una nicchia usando metodi black-hat, senza farsi troppi scrupoli, così come ci sono istanze o gruppi di istanze che inneggiano ai loro idoli di turno, siano neonazisti, neomarxisti o suprematisti della Nutella.
Bisogna saper scegliere con quale gruppo associare la propria presenza, con la consapevolezza che cambiare casa nel fediverso è semplicissimo e, con qualche accorgimento, non si perderanno seguaci e seguiti.
E tu, caro ascoltatore o ascoltatrice, hai già un account sul fediverso tutt’ora vaghi su Instagram? Se decidi di passare da queste parti fammi un fischio, io qua sono @77nn@goto.7nn.it.